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Cose da bambini

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Quand'ero piccolo c'erano delle cose belle che apparivano all'improvviso. Una bella giornata di primavera e la maestra stiracchiava in alto le braccia e in uno sbadiglio diceva – Vogliamo andarcene fuori a giocare?
Noi saltavamo sulle sedie, qualcuno correva alla porta finestra.
- Aspettate, fatemi prendere almeno le chiavi.
Io non amavo esultare platealmente. Mi piaceva di più stringere i pugni sotto il banco e sprigionare l'entusiasmo dallo stomaco, sentirlo salire dietro la schiena, fare il giro della morte nel cervello e spremersi contro le palpebre serrate. Era come se in quei momenti mi sdoppiassi e una parte di me cercasse di tirare su l'altra, mostrandole che si poteva essere felici ogni tanto, anche di cose stupide.
Le belle giornate nel giardino della scuola erano un premio spettacolare. C'erano degli angoli speciali nascosti dietro le siepi, in cui si poteva creare il proprio nascondiglio senza che nessuno potesse scoprirlo mai. Un posto segreto per la parte segreta. E poi c'erano degli splendidi luoghi a vista, come il giovane pino nell'aiuola al centro del giardino su cui avevo trovato il modo di salire. Lo facevo senza farmi vedere da nessuno, perché l'avevo scoperto io e non volevo che vedessero come si faceva. Mi piaceva farmi trovare lassù e vedere tutte le ragazzine e la maestra avvicinarsi a chiedere come c'ero riuscito. Quando lei poi se le portava via per mano a vedere i fiori, era la volta dei miei amici.
- Ho capito come ha fatto – diceva qualcuno, provando ad arrampicarsi.
Avevo sempre la preoccupazione che l'avessero capito per davvero o che trovassero un altro modo di salirci. Invece alla fine non ci riuscivano e dopo un po' di tentativi, si mettevano seduti di fronte al tronco e se ne stavano a guardarmi.
- Adesso vi racconterò una storia – dicevo.
Loro erano felici. Solitamente rimaneggiavo film o videogiochi cambiando dettagli significativi. Restavano ad ascoltare con le bocche aperte perché nelle descrizioni mi ci mettevo d'impegno. Poi qualcuno si rendeva conto di aver già sentivo una storia del genere, di averla vista in televisione proprio la sera prima. Si metteva in piedi e mi puntava un dito contro.
- Ci prendi in giro, Distante! Questa storia non l'hai inventata tu.
Allora si divertivano a raccogliere pigne e a lanciarmele contro finché non venivo giù dall'albero.
- Andiamo a prendere il pallone? - proponevo.
- Io voglio giocare contro di te perché non penso proprio che sei il più forte della classe. Voglio batterti – diceva Cassone.
Facevamo le squadre e ci mettevamo a torso nudo per scioccare le bambine.
C'erano delle giornate in cui ci mettevamo a fare gli stupidi e delle cose vecchie non ci importava niente. Dimenticavo il pino pensando di essere diventato grande, ce ne andavamo alla ricerca di quelle strane pietre che avevano dei minerali trasparenti all'interno che luccicavano al sole. Credevamo che fossero pietre preziose. Io ne avevo una collezione nel fondo dello zaino. Ce la tenni finché un giorno da una di quelle pietre vidi venire fuori un tagliaforbice lungo quanto il mignolo. La lanciai via ripulendomi le mani sul grembiule e sentii i peli rizzarsi sulla colonna vertebrale. Pensai a tutte quelle pietre nello zaino e andai a togliercele con la paura di trovare un altro tagliaforbice. Avevo sentito dire che si chiamavano così perché erano capaci di saltarti via un dito con le lame.
Un giorno, in un angolo sperduto del giardino, scoprimmo i trifogli. Inizialmente pensammo che fossero tutti ammassati in quell'angolo, ma seguendone qualcuno più distaccato, ci rendemmo conto che ce n'erano in tutto il giardino. Così ci venne l'idea di cercare un quadrifoglio e ci disperdemmo dappertutto per vedere di trovarlo.
Ero quasi convinto che l'avrei trovato quando quel ragazzino fissato con i computer, Alimentatore, venne a tirarmi per il grembiule.
- Che cosa vuoi?
- Vie-vie-vieni a vedere una cosa.
- Ho quasi trovato il quadrifoglio.
- Se-se-senti me che que-questo è m-meglio.
Andai a vedere e in effetti era meglio. Era un foglio tutto intero di un giornale pornografico. Parlo di quelli con le foto, dove si vedevano le donne vere e proprie a tu per tu con mastodontiche erezioni. Ce lo guardammo un centinaio di volte, immagine per immagine, commentando. Vedemmo la maestra da lontano iniziare a insospettirsi.
- Che cosa state facendo voi due, laggiù?
- Niente, stiamo vedendo una cosa.
- Che cosa?
- Una cosa bella.
Forse aveva capito. Si teneva a distanza. Poi si fece coraggio, dopotutto era la maestra. Venne a vedere e noi lasciammo cadere il foglio e le guardammo il viso. Guardavamo come i suoi occhi guardavano quelle carni durissime e come le sue labbra si spalancassero per la meraviglia, esatte uguali a quelle delle donne fotografate sul giornale. Alimentatore aveva una mano nella tasca del grembiule, continuava a darsi colpetti ammonitivi tra le gambe.
- Vi sembra una cosa bella da guardare, questa? - disse la maestra. Era diventata rossa, ma non era arrabbiata.
Ogni tanto abbassava lo sguardo sulla pagina come quei bambini che hanno paura dei film horror e si mettono le mani sugli occhi mai poi guardano attraverso le dita. Forse fu questa cosa che vidi a farmi credere che si poteva ottenere qualcosa da lei.
- Ti piace, vero? - chiesi.
- Che cosa? - disse lei.
- Quel coso lungo nella foto. Lo vorresti?
- E che ne sai tu? - sorrise – Sei solo un bambino.
- Ormai sono grande – deglutii – Lo vorresti? - sentii il mento che mi tremava.
Lei non disse niente e io sapevo che non avrebbe detto niente. Si voltò soltanto, continuando a sorridere, e andò via. Noi le guardavamo il culo nei jeans e pensavamo ai culi di quelle puttane sul giornale. Alimentatore diede altri due o tre colpi al coso e poi smise.
- Che-che-che donna... – disse.
- Già – dissi io.
Lei si girò ancora verso di noi, guardandoci come se adesso avessimo un segreto, si sistemò i capelli dietro un orecchio e urlò – Bambini, tutti in classe adesso!
Seguimmo gli altri, anche se aveva detto bambini e noi sapevamo che non si riferiva a noi perché noi non eravamo più bambini ora.
Il giorno in cui ebbe l'idea di organizzare delle attività da svolgere in giardino e diede a Cassone il compito di raccontare le storie da sopra al pino, mi guardava con degli occhi da traditrice. Avrei potuto dirle che quel compito spettava a me perché Cassone non sapeva neanche salirci sul mio albero, ma non glielo dissi. Abbassai la testa sul banco e mi misi a piangere, bagnando tutta la lezione di storia sui Savoia. Misi le mani intorno alla faccia così che non mi potesse vedere nessuno e alla fine se ne accorse proprio Cassone.
Lei venne vicino a me, si chinò e mi tolse via una mano dalla faccia.
- Perché piangi? - sorrideva come quel giorno.
- No, niente, così – dissi.
- Maestra – la chiamarono le mie amiche di classe che avevano capito tutto – Sull'albero ci va sempre lui, forse piange perché adesso hai detto a Cassone di andarci.
- È per questo che piangi? - mi sussurrò in un orecchio, accarezzandomi la testa.
- Credo di sì – dissi, ma così piano che non volevo farmi sentire.
- Come? - aveva sentito bene, ma fece finta di no.
- Credo di sì, ho detto – gridai più forte.
- Ma tu ormai sei grande. Raccontare storie dal pino non è una cosa da bambini? - mi chiese.
Beh, mi ero sbagliato. Non era una cosa da bambini.

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